Elezioni regionali: Abruzzo leghista, lacrime pentastellate. E il Pd annaspa
PESCARA, 11 febbraio – L’Abruzzo è la prima regione del centro sud a maggioranza leghista. E’ il dato più evidente che emerge da queste elezioni regionali, che hanno assunto un marcato rilievo politico nazionale. E’ infatti il primo vero test per la maggioranza di governo: i risultati promuovono la Lega e bocciano senza appello il Movimento 5 Stelle. Inoltre indicano che il centrodestra è maggioranza nel Paese. Inevitabile attendersi, nelle prossime settimane, strascichi e ripercussioni nell’area di governo. Tornando alle cose di casa nostra, il nuovo presidente della Regione è il candidato del centrodestra Marco Marsilio. Figura catapultata da Roma, in quota Fratelli d’Italia, dell’Abruzzo in realtà sa ben poco. Ha beneficiato dell’inarrestabile onda di consenso di cui gode il partito di Salvini, che con il 27,5% si afferma come prima forza politica della regione. Un’affermazione netta ed ampia, con il secondo classificato, il candidato del centrosinistra Giovanni Legnini, che insegue a 17 punti di distanza. Solo terza Sara Marcozzi, alla guida di un Movimento 5 Stelle che è il vero sconfitto di queste elezioni. Da sottolineare il dato dell’astensione, che torna a livelli altissimi: ha votato soltanto il 53% degli aventi diritto, contro il 75% delle politiche del 4 marzo scorso e il 61,5% delle precedenti regionali. Sintomo di disagio e disaffezione da parte dell’elettorato abruzzese, è il segno che ci sono nuovi spazi politici da riempire.
CENTRODESTRA
L’Abruzzo si scopre leghista. L’onda salviniana non conosce ostacoli neanche in una regione che è stata a lungo bersagliata dalla cruda retorica anti-meridionalista della Lega. Neanche in una regione composta in larga parte da piccoli centri, nei quali non si rilevano particolari problemi e tensioni sul fronte dell’immigrazione. Neanche in un territorio nel quale la classe dirigente leghista è ancora in costruzione. Anche in questo Abruzzo placido, terrone e smemorato, insomma, la propaganda salviniana ha la meglio. E’ la conferma della straordinaria capacità comunicativa del vicepremier leghista e del dilagare, anche nella nostra regione, di sentimenti sciovinisti, sovranisti e anti-immigrati. Poco importa che in Abruzzo scarseggino lavoro e sviluppo, e che da quando c’è il governo gialloverde alla guida del Paese tutte le previsioni di crescita indichino un quadro ancora più oscuro. Non c’è più spazio per la complessità. Oggi i cittadini vogliono risposte semplici e immediate. E Salvini è in grado di darle: se stai male è colpa dell’Europa, è colpa degli immigrati, è colpa di chi sta peggio di te. La Lega, che tanto ama le ruspe, anche in Abruzzo spiana tutto ciò che incontra: abbatte Forza Italia, che crolla al 9% (aveva il 14,4% alle politiche e il 16,6% alle regionali) e tiene a debita distanza Fratelli d’Italia, che non sfonda, nonostante il candidato governatore sia stato espresso proprio dal partito della Meloni: 6%. Appena un punto in più delle politiche del marzo scorso.
CENTROSINISTRA
Il centrosinistra esulta per un secondo posto che, in effetti, è già grasso che cola, considerando l’impermeabilità al cambiamento che ha dimostrato candidando mezza giunta D’Alfonso, tanti vecchi arnesi e finti nuovi, l’intero partito dell’acqua e impresentabili ispiratori di liste che hanno tolto più voti di quanti Legnini sperava ne portassero. Su quest’ultimo fronte, per informazioni, chiedere all’ex finiano Daniele Toto e al condannato per peculato Giorgio D’Ambrosio. Se questo è il centrosinistra dal quale Legnini chiede di ripartire anche a livello nazionale, è probabile che Salvini governerà indisturbato per i prossimi vent’anni. Certo, da un punto di vista strettamente numerico, l’analisi di Legnini potrebbe anche funzionare: 31,2% (con 8 liste compresa quella del Pd) contro il drammatico 20,2% delle ultime politiche (inglobando anche Leu). Resta il fatto, però, che il centrosinistra di Legnini resta ampiamente minoritario, recupera solo in minima parte l’elettorato deluso dalla svolta a destra del M5s e non intercetta il voto di opinione. A tenere a galla la coalizione, infatti, non sono le tanto sbandierate forze fresche della società civile (quelle autentiche, peraltro, nelle otto liste si contano sulle dita di una mano). A fare il pieno, nel centrosinistra, sono i soliti capibastone locali come Donato Di Matteo, Antonio Blasioli e il figlio d’arte Giacomo Cuzzi su Pescara; Silvio Paolucci e Alessio Monaco su Chieti; Dino Pepe, Sandro Mariani e l’ex consigliere di centrodestra Giorgio D’Ignazio su Teramo; Pierpaolo Pietrucci, Giuseppe Di Pangrazio, Americo Di Benedetto e Lorenzo Berardinetti su L’Aquila. Figure autoreferenziali, che rappresentano l’antitesi di qualsiasi ipotesi di rinnovamento. Una spinta, quella al rinnovamento, che arriva con forza dalla società italiana e dall’elettorato, ma che il centrosinistra continua autolesionisticamente ad ignorare. Discorso a parte merita il dato del Partito Democratico: 11,4%. Mai così in basso, nella storia repubblicana, dai tempi del Pci ad oggi. Peggio del disastro delle politiche del 4 marzo scorso (13,8%) e ben lontano dai fasti delle regionali di cinque anni fa (25,4%). L’Aventino su cui il Pd si è ritirato a livello nazionale e il lungo processo per definire cosa vuole essere e da chi farsi guidare, evidentemente non pagano.
MOVIMENTO 5 STELLE
E’ il principale sconfitto delle elezioni, in una regione che fino a ieri era una roccaforte pentastellata. Non sono serviti i continui viaggi in Abruzzo dei vari Di Maio, Dibba, Toninelli e Giulia Grillo. Non è servita la sovraesposizione mediatica della candidata Sara Marcozzi, iniziata con largo anticipo sulle emittenti tv nazionali. Il M5s è andato ad una prima conta con la Lega e l’ha persa in maniera chiara ed inequivocabile. Basti pensare che in Abuzzo, alle politiche che si sono tenute meno di un anno fa, il M5s aveva incassato il 39,8% e la Lega il 13,8%. Oggi il M5s è al 19,7% e la Lega al 27,5%. Venti punti in meno per i pentastellati e quasi quattordici in più per il partito di Salvini. Fanno sorridere le argomentazioni della Marcozzi e dei suoi fedelissimi, secondo i quali il confronto non va fatto con le politiche dell’anno scorso ma con le regionali di cinque anni fa. Tra l’altro, anche rispetto alle regionali del 2014, il M5s perde quasi 2 punti percentuali e in termini assoluti circa 25.500 voti. In ogni caso ragionare in questo modo significa mettere la testa sotto la sabbia, ignorare la valenza fortemente politica di queste elezioni e fare finta di non comprendere che il test elettorale del 4 marzo scorso rappresenta un riferimento certamente più attendibile rispetto a quello di cinque anni fa. Cinque anni, in termini politici, sono infatti un’altra era. Il M5s, in realtà, non riesce ad ammettere neanche a se stesso che dal “non siamo né di destra né di sinistra” è passato ad essere l’azionista di maggioranza (a rischio scalata della Lega) del governo più a destra della storia repubblicana. Con il risultato che i suoi elettori di destra votano ancora più a destra (perché tra l’originale e la brutta copia vince sempre l’originale) e quelli di sinistra li hanno abbandonati. Restano fedeli a Di Maio e compagni i pentastellati più ortodossi e una parte del popolo del reddito di cittadinanza. Un cavallo di battaglia, quest’ultimo, che avrebbe dovuto decretare il boom del M5s e che invece non è servito a tenere a galla il movimento.